Novità
In occasione del 1° Meeting dell'Agroalimentare d'Abruzzo, pubblichiamo una riflessione di Marco Panara, coordinatore di "Affari&Finanza" de "La Repubblica" e ospite di Agire in qualità di moderatore del forum che vede protagoniste le cento piccole e medie imprese del Polo di innovazione, sulle prospettive del sistema agroalimentare nel contesto internazionale e alla luce della crisi in corso.
Una recessione lunga cinque anni, come quella che stiamo attraversando e di cui ancora non si vede la fine, cambia un paese, trasforma il suo tessuto economico e sociale, muta i comportamenti e le scelte. Seleziona, anche crudelmente, i punti di forza e quelli di debolezza. La produzione industriale nell'arco di questo lustro si è ridotta di un quarto, e non è una contrazione congiunturale. La struttura produttiva manifatturiera si va riducendo, chiudono fabbriche e aziende che non riescono a tenere il passo con un mondo cambiato e con una domanda interna che soffre. La selezione che la lunga recessione determina vede resistere e talvolta rafforzarsi aziende e settori che hanno saputo allargare i mercati di sbocco delle loro merci, e dimagrire e spesso perire aziende e settori che dipendono esclusivamente dal mercato interno per la natura delle loro attività o, spesso, anche per l'incapacità o la non volontà di affrontare il mare aperto della competizione internazionale.
Affermarsi sul mercato globale non è ovvio, è il frutto di strategie mirate ed efficaci di conquista di mercati avendo però sempre necessariamente alla base dei forti fattori competitivi. Un fattore competitivo è il prezzo, ma la competizione sui prezzi è resa durissima dai costi strutturalmente più
bassi dei sempre più numerosi paesi che si affacciano sul mercato globale. Per giocare quella partita bisogna essere capaci di enormi economie di scala e di elevatissimi tassi di produttività dei fattori.
Sono settori e merci nei quali conta moltissimo l'innovazione di processo per mantenere la propria produttività sempre un passo più avanti rispetto ai competitori. Ci sono aziende italiane che sono in
grado di reggere la sfida, abbiamo campioni mondiali o europei di prodotti a basso prezzo e basso valore aggiunto, dai bicchieri di plastica alla carta sanitaria, per citarne due. Abbiamo peraltro molte
aziende che producono merci a basso valore aggiunto, ma che non hanno i tassi di produttività necessari e sono quelle che stanno soccombendo.
In realtà, finalmente è chiaro quasi a tutti, il futuro economico dell'Italia non può essere affidato ad una competizione sui costi in prodotti a basso valore aggiunto. Vale per l'Italia e per l'intero mondo
industrializzato. L'aumento della produttività di cui giustamente si parla riguarda, dovrebbe riguardare, soprattutto l'aumento del valore di quello che si produce più che semplicemente una riduzione dei costi. E' l'evoluzione della globalizzazione a obbligarci a questa strada: in un
sistema globale nel quali tutti competono contro tutti su tutti i mercati, i paesi che hanno un tenore di vita più elevato possono cercare di conservarlo e accrescerlo solo puntando sull'aumento del valore. E' il paradigma al quale s'è adeguata per prima la Germania, insieme alla Svizzera e ad alcuni paesi del Nord Europa. Lo stesso messaggio, chiarissimo, viene dalla struttura dell'export italiano, che ha retto alla crisi e che cresce più in valore che in quantità ormai dall'inizio degli anni duemila. Non è accaduto, come in un primo tempo il fenomeno era stato interpretato dagli economisti e dagli statistici, che le aziende italiani hanno aumentato i prezzi per compensare la contrazione delle quantità esportate. E' accaduto invece, assai più virtuosamente, che un certo numero di imprese (non abbastanza purtroppo) ha alzato il valore dei propri prodotti, ne ha aumentato la qualità e l'appetibilità.
La ricetta di gran parte del successo delle imprese italiane nel mondo è frutto dell'aumento dell'appeal delle merci prodotte, mentre solo per una parte minore, anche se importantissima, l'aumento della produttività è in termini soprattutto di quantità. Nella classifica dei settori che guidano l’export italiano e che dimostrano sul campo livelli elevati di competitività non a caso ci sono la moda, forte dei suoi marchi, alcuni comparti del mobile, dove marchi e tecnologie sono presenti massicciamente, pezzi della chimica fine e della farmaceutica, dove l’innovazione è tutto, ampie parti della meccanica strumentale con posizioni di leadership mondiale in numerose specializzazioni, l’agroindustria.
Il successo internazionale dell’agroindustria italiana è il frutto di una rivoluzione, cominciata forse con uno scandalo di molti anni fa, quello del vino con il metanolo. Era il 1986 e da quel grave scandalo è nata una nuova consapevolezza: che la forza delle nostre produzioni era nella qualità, nella specificità, nella tracciabilità, nell’identità, nei sapori non imitabili e nella storia anch’essa non imitabile dei territori e dei popoli che quei territori hanno coltivato per secoli. Oggi l’agroindustria italiana comincia a raccogliere i frutti di quella presa di coscienza, con un’export che cresce anche in un momento di rallentamento dell’economia mondiale, nel 2011 +9 per cento, nel 2012 un altro +2 per cento, trend che è continuato in gennaio del 2013. Lo scorso anno le esportazioni hanno raggiunto il record di 31 miliardi, con alcune significative sorprese, come l’aumento dell’export di formaggi in Francia o delle birre in Germania e in altri paesi del Nord Europa, come l’aumento del 21 per cento delle esportazioni verso l’Asia (in Cina +28 per cento dell’olio, +84 della pasta, +21 del vino mentre sono triplicate le esportazioni di parmigiano, grana e prosciutto, e la Cina è una paese con un cultura alimentare ricca e forte).
Siamo solo all’inizio. L’agroalimentare italiano è tra i più vari, qualitativi e apprezzati del mondo, non da oggi. La novità è il cambiamento di atteggiamento e mentalità dei produttori, che sempre più numerosi hanno assimilato il concetto della qualità e del valore, e cominciano ad elaborare la complessità di una presenza globale. Che è diventata un obiettivo e intorno alla quale si cominciano a costruire strategie.
Grazie anche al passaggio generazionale è avviata l’evoluzione culturale dei produttori, anche se la capacità a collaborare non è ancora diffusa come dovrebbe, ma restano alcuni ostacoli strutturali, essenzialmente da dimensione delle imprese e l’infrastruttura pubblica di supporto all’internazionalizzazione. Per quest’ultima forse qualcosa sta procedendo, come testimoniano l’attenzione di Sace e Simest, l’evoluzione (ancora in fase di promessa) dell’Ice e alcune iniziative regionali. Segnali. C’è ancora molto da lavorare per valorizzare appieno le potenzialità straordinarie di questo settore.
E moltissimo da lavorare c’è per la crescita dimensionale delle imprese anche attraverso consorzi, reti o altri strumenti che consentano di avere le risorse, il volume dell’offerta e le competenze manageriali necessarie per affrontare mercati ampi e diversi.
L’Abruzzo è una regione che unisce la presenza di grandi aziende con marchi globali, medi produttori già internazionalizzati, piccoli e piccolissimi produttori presenti in nicchie di grande qualità e specificità. Non tutti possono utilizzare gli stessi strumenti, ma i marchi già internazionali possono fare da traino ai prodotti di nicchia, e un sistema ben coordinato può aiutare a valorizzare tutti e ciascuno. Un settore che produce 2,4 miliardi di fatturato di cui oltre il 20 per cento dall’export mostra di avere basi forti per poter crescere ancora in innovazione, qualità e valore, contribuendo al benessere della regione ed alla qualità del suo ambiente.
Marco Panara - Affari&Finanza (La Repubblica)
64100 Teramo (TE)
Dal lunedì al venerdì dalle 8:30 alle 13:30
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